Detesto ogni ripetizione e più di tutte quelle intenzionali.
Occorre fare molta attenzione a non cadere mai nella ‘maniera’ di se stessi, in una sorta di rifacimento volontaristico e intellettuale del poco che si è fatto o del niente che si è tentato di fare.
Rigettare ogni calcolo sul vivere di rendita.
Ho bisogno di spontaneità come del pane e dell’aria.
Vorrei lasciar crescere, come cespugli, spontaneamente le sculture, liberate da ogni preconcetto estetico, un poco oggi, un poco domani, o mesi o anni finché non trovino il proprio completamento da se stesse, l’assestamento nel mondo del visibile il più vicino possibile ad ogni fenomeno naturale.
Intendevo e forse ancora intendo scultura come qualcosa teso al recupero del ricordo, ora un po’ meno: vorrei che questo smemorare, questo abbandonarmi alle ombre sopite della memoria svanisse per lasciar posto a qualcosa di più consistente, di riconoscibile e tangibile.
Qualcosa da toccare anche, in tutte le sue tre dimensioni, non qualcosa che deve esser guardato seguendo solo il ritmo o il tenue filo dei profili.
Scultura da guardare in modo più reale, così come si guarda e si soppesa ogni e qualsiasi oggetto.
Qualcosa che rifiuti a priori il preconcetto che la si supponga appartenente all’arte, ma della quale, solo dopo averla attentamente considerata, si possa pensare che all’arte apparterrà.
Non ho mai rinnegato – e del resto mi era assolutamente impossibile – la figura umana. L’ho tradita, a volte, impantanandola in camuffamenti che nascondevano dietro una forma impropria e approssimativa la sua vera essenza.
A questo punto non resterebbe che ricominciare daccapo.
Ma da dove? Come stabilire dove è situato l’inizio, quello autentico, essenziale, inequivocabile?
Saprò sottrarmi al perfido fascino del già fatto da altri e tutto cavare da solo da me stesso.
Cercare nell’uomo qualcosa che non sia solo un modello ma qualcosa in cui ci si possa riconoscere.
Dunque poter solo felicemente e follemente lavorare alla ricerca di quell’umanità che è in noi in quanto uomini.
Cercare cioè una realtà sculturale che vada a coincidere con la nostra realtà interiore.
Per un vero artista l’opera realizzata rappresenta sempre un dubbio, quasi mai una certezza.
I corpi non sono che l’insieme di molteplici forme raccordate tra loro con armonia.
Il problema per noi scultori sta nell’identificare tali singole forme, capirle nella loro struttura per poter poi liberamente e naturalmente giungere a risalire da loro all’insieme, a quella somma di linee e di volumi che noi chiamiamo ‘corpo umano’.
Non saranno certo quattro carte di cantiere, qualche nota d’atelier o la non molta carta stampata scritta da estranei, durata un giorno o poco più, a testimoniare in modo veridico quella che è stata l’enorme fatica degli scultori moderni.
Fatica destinata a rendere ancora plausibile e necessario il fare scultura.
In ben altri documenti bisognerebbe cercarne una più attendibile testimonianza, ma questi non sono mai esistiti come tali, si sono consumati col tempo, si sono consunti col trascorrere delle ore, dei mesi, degli anni, di intere vite di lavoro.
Vite solitarie e insicure, poche quelle serene, molte quelle disperate in cui il lavoro si è svolto senza più scuole o maestri, arrancando per vie spesso troppo impervie e deserte, vivendo in società e in tempi che sempre meno hanno avuto ed hanno bisogno di loro.
La scultura, non conoscendo e non obbedendo ormai più a schemi o imperativi stilistici, è, OGGI, uno degli atti più inconsueti e liberatori, un’azione unica e incomparabile che appartiene al regno delle più pure delle libertà alle quali non si può rinunciare se non con la morte.
Riproporre agli occhi degli uomini le immagini delle cose con la medesima libertà e fantasia della natura.
Le sculture sembrino generate più dalla natura che dall’uomo, come se fossero nate e trovate allo stato libero e organico e non artificiosamente create dalla mano ormai viziata dell’uomo.
Abolire la ‘mano’, renderla duttile vergine imponderabile come il pensiero, la fantasia, immagine libera e misteriosa.
Cose ‘fatte’ e non ‘finite’, nobilitate e liberate dalla mano dell’uomo, non avvilite.
Risalire alle origini delle cose non come speculatori d’archeologia, ma come uomini moderni che hanno bisogno di scoprire le proprie fonti per esserne illuminati.
Risentire tra le mani brulicante di vita la materia e restituirla alla natura fatta più misteriosa dalla poesia dell’anima e dello spirito umano.
Giungere, infine, al momento supremo in cui la materia diventa vita.
Comunque sia, io credo che il metro temporale con cui si deve misurare la scultura non è fatto di mesi o di stagioni, ma di anni se non di secoli, e addirittura di millenni.
Sono gli scultori stessi – ed io li seguo – a portarci fuori dalle città. Vogliono le loro sculture condurci non nei musei o nelle piazze ma ‘fuori’ nei boschi, prati e campi, nelle pianure sino alle pendici dei monti e sugli altipiani dove il cielo è più vasto.
Le piazze, le strade non sono spazi all’aperto perché non hanno orizzonte e se l’hanno è chiuso ai lati e di libero non c’è che l’altissimo soffitto del cielo.
Così io seguo, nella fantasia, come ninfe che mi seducono, sculture e sculture di Maillol, di Laurens, di Brancusi che mi chiamano altrove, là dove stanno i sogni della grande scultura moderna universalmente legata, come sempre, alle radici della natura. Poiché in mezzo a una radura di un bosco un ‘uccello nello spazio’ di Brancusi sembrerà certo un vero e proprio miracolo del tutto di origine naturale, così come esso lo è realmente.
Non bisogna correre ad ogni passo dietro alla poesia; essa – se è in noi – prima o poi penetrerà da sola nelle nostre opere.
Ho percorso quasi per intero l’arco della mia vita in cerca di qualcosa.
Alla fine, dopo tanto andare in direzioni diverse, non farò che tornare là da dove sono partito.
Allora, quel luogo mi sembrerà del tutto sconosciuto perché solo con gli occhi della memoria avrò appreso a guardarlo.
Da ragazzo mi ero stranamente convinto di essere ‘fisicamente’ immune dalla morte.
Di vivere cioè per sempre un eterno ‘presente’.
Pensavo che ogni tanto potesse accadere a qualcuno, ad uno su miliardi di miliardi, per sorte, non per altro, di non dover fisicamente finire.
È stato in quegli anni, forse, che si è maturata in me la voglia di essere scultore, poiché inconsciamente sentivo che la scultura come ogni arte, in parte, era la più vicina alla ‘non morte’?
Credo, perché solo la fede, come l’arte, parla allo spirito.
La vita senza mistero è come un deserto senza sabbia e senza cielo.
Fare una mostra intesa non come un’‘esposizione’ ma come ‘stanza’ delle sculture.
Ci vogliono anime e occhi particolari per fermarsi a contemplare a lungo una statua.
La necessità di vivere del proprio lavoro alienandolo impedisce agli scultori moderni di vedere la propria opera nell’intero arco della sua parabola dall’inizio alla fine e non riunita occasionalmente per una mostra, ma tenuta insieme a riempire gli spazi, a testimoniare i tempi, le speranze e le crisi della propria esistenza.
Pagine sparse, distaccate una ad una che se ne sono andate spesso per un niente e che sarà molto improbabile se non impossibile riunire ancora. Come se uno scrittore disperdesse uno alla volta donandoli o vendendoli a rate le singole pagine, i diversi capitoli di un suo romanzo, senza mai riuscire a vederli riuniti in quel contesto che altro non era che il fine del proprio lavoro: un’opera intera e non solo una diaspora di frammenti.
Anche quando riposa lavora, quando mangia lavora, quando cammina lavora, quando pensa lavora perché ogni suo pensiero è là a ruotare intorno ad essa: a quell’opera.
Ossessionato dalla sua forma, dalla sua struttura, ogni suo atto agisce là dove la forza creatrice interviene nel tentativo di identificare e raggiungere quell’immagine indefinita che stava all’origine.
Questo appartenere ed essere posseduti da un’unica idea e servire solo lei, abolisce nello scultore ogni sensazione temporale: quasi una legge arcana volesse anticipargli in vita, facendogliela assaporare, quella specie di limbo del tempo in cui son destinate a vivere le sculture. Una vita immota e immutabile in cui s’è andata cristallizzando, giorno per giorno, ogni ora di lavoro, di ansia, di speranza, di dolore.
La scultura dunque si trasforma in una specie di utopia, lo scultore è spinto a fare ‘qualcosa’ che non è mai stato e che forse non sarà mai, che non sa dov’è e che cos’è ma che comunque non cesserà mai di cercare.
Dimensione atemporale della scultura:
Risalendo i silenzi e le solitudini del tempo, alla ricerca di ciò che è stato e sarà ancora, di ciò che pur non essendo stato vivente ha ancora vita, di ciò che pur non essendosi mai mosso non è rimasto immobile, là dove tempi e luoghi saranno senza misura e memoria e passato e futuro si confonderanno, ecco che apparirà, al limite estremo della nostra possibilità di vedere all’indietro, come una delle prime verità rivelate dall’arte, la piccola, maestosa Venere di Lespugue.
L’arte ha un solo obbligo sociale: quello di essere arte.
Nel silenzio e nella penombra delle cattedrali più che nei musei, le sculture vivono la loro autentica vita, assorti testimoni delle nostre vicende, di noi che passiamo e di coloro che se ne restano ad attendere altri che come noi passeranno.
Il tempo delle statue non è come il nostro, lo spirito di chi le ha create rinasce in noi che le riconosciamo ancora viventi.
Quell’amaro sogno ogni volta infranto, mai posseduto, forse irraggiungibile di reinventare con forme nuove la figura umana.
Nel solco dei padri, con gli arnesi dei padri dobbiamo continuare, oltre il termine del loro cammino, iniziando là dove essi l’hanno interrotto.
Solo così potremo indicare una nuova e giusta strada ai nostri figli, per sottrarli all’insidia e all’inganno del conformismo.
Sono andato e vado innanzi con la mia generazione, non mi sono mai ‘aggiornato’ o ‘posticipato’ vestendomi con panni e modi che appartengono ad altre, siano esse più giovani o più anziane della mia. Ma come artista io non ‘ho’ generazione, sono una cellula anomala.
Gli unici compagni di viaggio che ho avuto sono io e la mia solitudine, il lavoro e i maestri ideali, antichi e moderni, che mi sono scelto ed i bravi, onesti artigiani dai quali ho appreso il mestiere.
Anche per le nostre opere c’è un ‘grembo’ materno che le protegge per quel tanto che restano presso di noi. È il luogo ove son nate e cresciute che le preserva, se le rinserra ancora.
Uscite da quell’alveo, rese autonome, se non riescono a vivere di una vita propria, muoiono al macero come fiori senz’acqua.
Poiché solo alcuni di loro sanno giudicare o misurare le proprie forze, perdonate agli artisti in nome delle immense difficoltà che il grave compito che si sono assunti comporta.
Tutti, anche i più deboli e gli incapaci, con la loro dedizione all’arte si sono redenti.
Non fatevi quindi giudici degli altrui fallimenti, se in primo luogo non avete considerato il vostro.
Le sculture sono creature autonome, indipendenti – più di quanto non si pensi – dai loro autori.
Moriranno mai le pietre e di qual morte? Avidi di sopravvivenza, a troppo ingannevoli speranze si sono affidati gli scultori.
Ovunque regnino il gelo o l’ardore dell’aria, sulle dune, nei deserti e sugli altopiani, anche le pietre si fanno mortali.
Vaghi preludi di sabbia, al sole inaridiscono e quando il freddo le gela si fendono.
È allora che svanisce con loro quella garanzia di sopravvivenza in più che alla pietra gli scultori avevano richiesto.
La speranza in loro riposta si rivela precaria e si frange labile, anche lei, come ogni cosa terrena.
Nulla, più nulla, col tempo sembra dover sopravvivere.
Sculture di stelle il tempo e lo spazio consumeranno anche voi.
O cristalli, privati della vostra regale geometria, anche voi non sarete che polvere.
Vorrei essere capace di mandare a memoria una scultura nel suo insieme e in tutti i suoi particolari come una poesia.
Se l’identità della scultura sta nel fatto che qualcuno possa riconoscersi in essa, mi domando chi mai possa essere costui se da sempre la scultura si è rivolta ai morti, ai mai visti, a chi, invero, non è mai esistito.
Forse più che Eros è l’istinto di conservazione a generare scultura.
Chi ancora si illude di incidere per sempre il proprio nome nella pietra? Oggi alla scultura non è rimasta che sabbia.
Dare riposo alla materia non vuol dire creare zone amorfe.
Che pena i giorni perduti nel vuoto senza frutti, senza raccogliere nulla, giorni che buttiamo all’indietro con l’angoscia di vederli passare inutilmente… mentre i giorni fedeli, quelli trascorsi nella quiete, nell’ordine e nella decenza sono loro a farci avanzare con gioia, sia pure di poco, sul nostro cammino di vita e di lavoro, poiché tutto è ancora da fare.
Intendere la scultura anche come arresto o accumulo del tempo.
L’aver visto, come troppo sovente io vedo nelle fonderie e nelle marmerie un gran mare di manufatti ha generato in me la nausea del far troppo, ‘inutilmente’, e il desiderio di fare il meno possibile, solo l’indispensabile, l’insopprimibile, per non sentirmi complice e partecipe di questo futile massacro alla rovescia.
Sono stato scultore per poter vivere la mia vita, ogni giorno, con una certa tensione e con molta libertà.
Uno scultore è come una persona che allo specchio delle forme richiede un riflesso nel quale identificare se stesso e quasi mai lo trova.
Quanti sono gli scultori che mostrando una loro opera in buona fede possono dire: ecco, questa è l’ombra di ciò che cercavo?
Ogni pietra, anche la pietra più umile, sembra allo scultore un grande tesoro. Tale è la bella trachite dorata di Grosseto: appena cavata dal grembo della terra è ancora intrisa del suo profumo come un frutto e tutta inondata di sole.
Guardo il volo dei passeri tutto a sobbalzi, come se volessero, ogni tanto, riprendere fiato. Penso che mi somigli. Mentre io sognavo solo il volo dei falchi, qualche colpo d’ala e poi un lungo, ininterrotto, sicuro planare verso la meta.
La scultura è come Atlantide, un universo sommerso alla cui ricerca, di tempo in tempo, qualcuno parte senza fare ritorno.
Come, mi domando, si può tornare dall’eternità di ciò che forse non è mai stato?
Le sculture più riuscite sono quelle che non ho mai fatto, ma che ho fatto e disfatto soltanto dentro di me, elaborato nella mente mediante la fantasia e l’immaginazione e che ora, sommerse e indistinte nel tempo, non sono più collocate nemmeno nella mia memoria.
La materia non si sottrae al nulla se non con un movimento verso una forma.
La distanza materiale di un’opera d’arte che amiamo non ci separa da essa, al contrario, ad essa ci unisce sempre di più, perché è solo nell’immaginarla che l’amiamo veramente.
Chi non ha fiori per la memoria, del suo solo presente non potrà mai vivere.
Inarrestabile tempo, felici sono solo quei giorni spaziosi in cui può distendersi, per intero, l’arco del proprio lavoro quotidiano.