Da l’onda del fiume
rialzo il capo; e sono tutta chiara
di luce.
Anacreonte di Teo
Quando per la prima volta sul frontespizio di un piccolo catalogo di Kurt Valentin vedemmo riprodotti quegli affascinanti e fantastici personaggi che sono il Re e la Regina pensammo subito alle possibilità che essi avevano – per come li aveva creati lo scultore – di divenire suscitatori e protagonisti di un mito.
Avventura non nuova per una scultura, ma assai rara e fortunosa specie nell’epoca moderna. Ora Re e Regina per una di quelle leggi arcane ma inesorabili che regolano il destino delle opere d’arte hanno trovato la loro collocazione ideale. Luogo più consono alla loro ieratica staticità e che maggiormente potesse essere dominato, galvanizzato quasi, dalla loro silenziosa presenza non poteva trovarsi, e quel collezionista scozzese che alla propria dimora ha «per loro» preferito le proprie terre di Dumfries ha di certo dato prova, oltre che di intelligenza, di rara sensibilità.
Paesaggio che meglio d’ogni altro si addice alla scultura di Moore poiché certe linee d’orizzonte, che segnano il degradare d’un colle o il lento modulato e solenne innalzarsi d’un pendio, o il riposo blando e disteso d’un avvallamento sono reperibili, col medesimo ritmo e la stessa grandiosità, nelle sculture di Henry Moore. Ciò dicendo pensiamo specificatamente ad alcune delle sue reclining figures più che a questo Re e Regina.
Comunque l’avere collocato su di una breve, disadorna piazzola di pietre questo gruppo, lungo il degradare d’un pascolo lasciandolo solo in un mare d’erba contro il cielo è stata buona prova di coraggio e di fede nella forza della scultura; queste due statue potevano anche soccombere, schiacciate dal peso enorme della natura, che qui certo non è né parco né artificioso giardino. Avere agito così vuol dire averle capite ed essere stati sicuri di loro e delle loro possibilità di resa. Questi due personaggi hanno in sé e in comune con il paesaggio che li riceve un inspiegabile ma palese sentimento della solitudine, recano in sé come un arcano distacco dalle cose del mondo: ieratiche e solitarie, immobili e pensose sembra guardino, consapevoli, il trascorrere del tempo, il lento giro delle stagioni e il muoversi lontano di cose eterne, né terrene né umane. Si accennava, dianzi, a una loro capacità di ricondursi a un mito, essa ci pareva così evidente che di già vedevamo, nel futuro, queste statue divenire, sulle labbra e nei racconti degli uomini di quelle contrade, protagoniste di favole, di leggende che nel corso del tempo avrebbero trovato la loro logica giustificazione. Certo un giorno quel luogo si chiamerà il prato, il pascolo, la tenuta del ‘Re’ e della ‘Regina’: saranno loro, queste due magiche immagini, tra qualche tempo, a mutare se già ne hanno uno o dare nome se ancora non ne hanno alcuno, a quei luoghi, a caratterizzarli inconfondibilmente. Ritorneranno esse – se così si può dire – per una via inconsueta al più delle sculture moderne là donde hanno avuto origine e sono venute: da un regno e in un clima di miti, di favole e di leggende, poiché, secondo quanto Moore stesso racconta, alle origini di questo gruppo sta il fatto che per lunghi anni egli stesso, alla piccola figlia, raccontò fiabe e storie in cui Re e Regine erano spesso di scena. Per strade ignote, come in una saga dunque, si tesse nel tempo il destino e la vita di un’opera d’arte quando essa è anche opera di poesia. Proprio nel rifarsi in modo così vivo e affascinante all’idea arcaica e primitiva dei ‘Re’, queste statue-personaggio trovano la loro prima giustificazione e poi ancora in questo loro ‘stare’ senza gesti, senza ‘azioni’ nella loro fissa immobilità, in un fatale parallelismo e infine nel loro guardare lontano ed essere, in questo sguardo, stranamente assorte.
Alita su questo gruppo così come è e così dove è ora un certo senso metafisico (non surrealistico) che proprio nella testa del Re ha il suo fulcro: testa che è testa e corona insieme, faccia e barba combinate in una medesima forma. Quel tanto di faunesco, di dio Pan, che è in questa espressivissima testa non riesce a sminuirne il primario carattere d’antica regalità, anzi, gli conferisce un aspetto più consono all’ambiente in cui ora si trova e vive, come se si trattasse d’un’agreste corona, posta in capo a un signore dei campi e delle messi.
Vorremmo pertanto puntualizzare ancor meglio il carattere di queste sculture e dire della loro forma; di come, ad esempio, esse siano – malgrado certe apparenti dissonanze – stilisticamente unitarie in tutte le loro parti; capire la loro forma nella sua piena esistenza spaziale; ma ora ci preme sottolineare (prendendo a pretesto proprio Re e Regina, la Figura drappeggiata, alcuni piccoli bronzi e il Grande guerriero con lo scudo), un’insistenza maggiore da parte di Moore in questi ultimi anni su temi più dichiaratamente figurativi, nei quali la ricerca e la reinvenzione di certe forme umane è il lato più interessante e nuovo. Anche se Moore non si è quasi mai distaccato completamente da una forma antropomorfa, in queste ultime sculture più forte si fa il richiamo, più irresistibile il fascino che egli sente per la figura umana, e appunto in queste opere sta la riprova – proprio per la loro validità di sculture – di come ‘scultura’, nella sua accezione più alta, voglia dire ‘forma umana’, dalla quale lo scultore per quanto faccia non sa distaccarsi e alla quale sempre si riconduce; anche se, affascinato talvolta da forme a lui sconosciute ne ha inseguito il vago sembiante, in una ricerca che il più delle volte, anche se utile e fascinosa, non s’è mai rivelata nei suoi risultati né essenziale, né definitiva, né universale.
Si diceva, dianzi, di una riscoperta da parte di Moore di certe forme, di certi elementi della forma umana e del tentativo di ricrearli sotto aspetti nuovi e in nuove dimensioni.
Abbiamo accennato alla testa del Re, ma di quel gruppo potremmo citare ancora le lunghe braccia sottili, le mani schiacciate, i grembi concavi, le larghe, lisce, spalle rotonde. Nella Figura distesa e drappeggiata, nella quale pare rivivere come in un’eco lontana il ricordo delle Parche maestose e infinite, meno evidenti sono queste ricerche; ma nel suo complesso questa statua rimane, per noi, una tra le sue più significative per il più largo e spaziato impianto, per la statica che governa una forma così chiusa e bloccata, per il sapiente e modulato ritmo dei profili, per l’inedito modo con cui è risolto il panneggio, per una cert’aria, infine, assorta e meditativa che conferisce a questa figura un fascino non comune e la fa essere non solo statua, ma qualcosa di più misterioso, di inspiegabile come se essa fosse, nel senso arcaico e primigenio, non una semplice donna sdraiata, ma statua di una divinità. Della Terra forse? Anche questo è un richiamo, fa parte di una certa mitologia che Moore sembra quasi voler risvegliare.
E quel Grande Guerriero donde è sortito, attraverso quali arcani ricordi, per quali vie, da quali lotte così mutilo e possente ci è giunto? Ganglio serrato e potente di forze rattenute, pugno chiuso, gladiatore superstite di quali tragici ludi, eroe mitico, cosa è venuto a dire al mondo contemporaneo?
È un avvertimento, un monito, un presentimento? Per quel tanto di istintivo, di inconscio, di inopinato che esiste nel lavoro di un artista autentico queste sono domande che troveranno la loro risposta solo nel tempo. Al presente interessa che egli abbia organizzato i suoi sforzi e realizzato con senso d’arte ciò che dentro gli urgeva. E in questa grande ‘invenzione plastica’ l’autore ha fatto veramente ciò che secondo Moore stesso lo ‘scultore’ deve fare: «Egli deve continuamente sforzarsi di pensare e usare la forma in tutta la sua completezza spaziale. Egli afferra la forma solida come se essa fosse all’interno della sua mente e la pensa, di qualunque forma sia, come se la stringesse tutta nel cavo della mano. Visualizza mentalmente una forma complessa isolandola da tutto ciò che la circonda; sa, guardandone un lato, com’è il lato opposto; si identifica con il suo centro di gravità, la sua massa, il suo peso, realizza il suo volume come lo spazio che la forma sposta nell’aria».
Solo così quel braccio, quella gamba mutili non sono moncherini ma forme indispensabili e precise e quello scudo levato a mezz’aria non è un disco vuoto, o un pretesto, ma un’integrazione formale esatta e funzionale e la scultura tutta non è frammento ma cosa viva e in quanto viva completa e immutabile. A chi appartiene? A noi? O piuttosto alla prima preistoria d’una nuova civiltà? C’è tanta fede nell’uomo, nella sua onesta, consapevole forza in questo Large warrior with shield da pensare che Moore abbia voluto in esso, con ben determinata intenzione, con ferma ostinazione ribadire come su un maglio l’importanza dell’uomo nel mondo, sia pur esso un mondo nuovo di scorie e di lava di cui noi, nell’ora presente, intravvediamo forse il primo ancora oscuro e incerto albeggiare. Ecco ancora una volta l’arte precorrere i tempi: questa sua virtù anticipatrice speriamo abbia valore di avvertimento, di monito.
Ma forse sono ancora troppo in pochi, nel mondo attuale, coloro i quali credono, anche in questo senso, all’arte. A quella moderna come a quella antica.