“Limite-infinito: impossibile il primo, naturale il secondo”
La presente mostra non è certo un recupero culturale né un ritorno di moda: è solo un tardivo ma doveroso atto di riparazione e di giustizia troppo a lungo atteso, un debito che si doveva ineluttabilmente saldare con chi è stato il più grande artista italiano della modernità.
Ed è, anche, un dovere morale farlo conoscere de facto alle generazioni più giovani.
L’ultima esposizione di Medardo Rosso organizzata in Italia risale alla Biennale di Venezia del 1950.
A confronto del massiccio e grossolano diluvio di monografie sfacciatamcnte lussuose e spesso agiografiche su scultori di ogni genere, il più importante libro dedicato a Rosso, con mezzi modesti, risale al coraggioso primo dopoguerra, al 1950, edito dalle Edizioni del Milione. Nello stesso anno un piccolo volume di Nino Barbantini, poi solo un breve fascicolo a colori con un vivace testo di Marchiori del 1966. In seguito alcuni saggi, a intervalli di tempo, dovuti a Ragghianti, Valsecchi, Caramel, Carandente, Pirovano, Fezzi.
Lo si è incluso inoltre – a parità con altri ma non di certo come protagonista primario – in qualche patria storia della scultura del XIX secolo.
All’estero, invece, mentre diversi musei acquistavano parte delle poche opere disponibili, il suo nome e la sua opera venivano messi al giusto posto, tra i protagonisti più alti di quella che più correttamente che arte dell’Ottocento viene chiamata arte moderna, o inizio dell’arte moderna. Nel 1963 il Museum of Modern Art di New York gli ha dedicato una grande mostra e le edizioni dello stesso museo hanno pubblicato il libro Medardo Rosso di Margaret Scolari Barr.
Ora con una mostra il più completa e organica possibile si vuol dimostrare quanto e come Rosso sia stato, in scultura, non un artista ‘d’avanguardia’, come oggi si usa dire, ma un autentico rivoluzionario. Uno di quei pochissimi la cui specie dà rari frutti solo ogni qualche secolo; avendo egli di fatto ribaltato una concezione della scultura che ormai stancamente durava da troppo, senza fiorire in nuovi avvenimenti. Nella sua opera ritroviamo dunque qualità rivoluzionarie effettive, non delegate. Poiché Rosso ha compiuto ciò che nessuno forse saprà e oserà fare chissà per quanto tempo ancora. Dopo di lui, anche i migliori, quelli che parevano essere i più forti, i più nuovi, non solo qui in Italia ma anche fuori, sono ricaduti in una concezione della scultura che è di nuovo rinascimentale, quella – appunto – che Rosso per tutta la vita ha caparbiamente avversato.
Mai la materia, nell’epoca moderna, è stata così dolorosamente posseduta e dominata in modo nuovo come in Rosso.
Ma a quale prezzo?
Quanta solitudine, quante sconfitte, quanti dubbi e ripensamenti, rifacimenti, disperazioni, tensioni, prima che essa – la materia – soggiacesse con una spontaneità così genuina e che appare del tutto naturale a questo spirito libero e grande, alle sue mani tenaci e sensibili?
Egli ha avuto dunque il grande merito di lasciarci non ‘sculture’ da museo ma opere d’arte più simili e vicine a delle creature viventi che a dei simulacri convenzionali.
E inoltre nella sua gran fatica, lungo la sua durissima lotta, con un atto rivoluzionario egli ha trovato nella tenera cera la materia più diretta e l’interprete più congeniale della sua visione, infischiandosene che non fosse ‘eterna’, a riprova e testimonianza del suo disinteresse verso quella sopravvivenza, quell’‘eternità’ cui tutte le sculture d’ogni tempo più o meno dichiaratamente aspirano.
Di certo Rosso non voleva raggelare, imbalsamandola in statue, la sua visione.
La realtà che vedeva o il ricordo che di essa s’era venuto formando dentro di sé, doveva rinascere e stare nell’aria naturalmente, così come stanno o come erano state per lui le figure che ritraeva, così come vi stanno le piante e i fiori. Nella sua personalissima visione e nella conseguente ricostruzione della realtà Rosso ha cercato e ha colto la ‘verità’ della gente che gli è apparsa davanti: cioè a dire la verità costante dell’esistere in sembianze d’uomo.
Negli ultimi fertilissimi anni della sua attività creatrice ha compiuto – come pochi altri suoi coetanei europei – quell’atto supremo che è concesso a rarissimi artisti, al di là del quale stanno, senza tempo, inalterati e perpetui, il sembiante, l’essenza e l’anima dell’uomo.
Rosso è riuscito – lui solo – a togliere alla scultura il suo ingombro e il suo peso: l’ha resa immateriale. Intuizione covata a lungo, costata anni di tentativi e di severa depurazione e che l’ha portato alle soglie di quel limite oltre il quale ideazione ed esecuzione di un’opera si identificano.
Il suo generoso amare e guardare ai protagonisti della realtà che più gli interessava, fossero essi gruppi di persone, figure isolate, teste o busti o – nei disegni – atmosfere d’ambienti e personaggi, crepuscoli e meriggi, ombre e luci, il suo stare – infine – tra la gente e la natura con grande amore ha fatto sì che egli riconducesse il proprio sentimento, spogliato d’ogni sentimentalismo contenutistico, al di là della mera apparenza per giungere a cogliere un ‘assoluto’ di verità e in questo assoluto, di conseguenza, la realtà vera e più segreta delle cose e degli uomini.
Rosso ha colta e fatta sua quell’ineffabile sostanza della scultura che è il non transeunte e ha fatto ciò proprio attraverso attimi, istanti, che sembrano a prima vista il più sfuggenti, il più transitori possibile. Ma tale sostanza è segreta, come tutti i più veri tesori, ed è impercettibile a coloro che guardano con occhi opachi e volgari alla scultura, anche a quella più nobile come appunto è quella di Medardo Rosso.
Non c’è alcun gesto in lui, non azione, ma solo presenza: la presenza umana del modello, intendo.
Dalle sue sculture non fuoriesce un bel niente, non vi sono, aggettanti o pencolanti, braccia o gambe che si agitano e si levano, pieghe, panneggi o svolazzi di abiti, costumi e pizzi, nudi in posa (il nudo è assente nella sua tematica) e mani, o mani con in mano qualcosa: c’è solo l’essenziale, il suo unico punto di vista che va direttamente a costituire il nucleo autogenerante la forma definitiva. Nelle sue opere l’accidentale, il momentaneo, il transeunte, l’instabile, il provvisorio, il precario, il mutabile e il mutante formalmente si eternizzano in un definito ‘per sempre’.
La scultura di Rosso non è per chi ama solo l’episodico e i contenuti.
Lavorò senza modelli d’elezione – antichi o moderni –, senza maestri effettivi, senza canoni, senza schemi prefissati: perché aveva intuito nella scultura una nuova possibilità espressiva.
Rifiutata radicalmente la tradizione e al tempo stesso diseredato da lei medesima, lasciato solo e indifeso dinanzi al tormento del suo assunto senza precedenti – incerto e confuso con altri all’inizio – ma solamente solo, ben chiaro e determinato, profondo e certissimo alla fine.
Sue affinità non solo apparenti quindi con i grandi antichi perché come loro dall’analisi egli è giunto alla sintesi. Non ci siamo mai dunque accorti di quanto l’antico, la sostanza dell’antico, l’essenza stessa della scultura, quella vera, sia nuova in Rosso?
Ma attenzione: la sua non è un’arte di derivazione culturale, non è il riflesso di altre epoche e stili.
Non ci sono nella sua opera archetipi, sedimenti inerti o depositi della tradizione: tutto è nuovo, cavato da sé, con una visione audace e ribelle della scultura che mai, prima di lui, si era veduta. Mai la materia fu più vicina ad essere umana come nelle sue piccole e poche sculture.
Tutto solo quindi ha valicato quei confini radicati e fortificati da una tradizione secolare entro cui si era chiusa e confinata la scultura: confini e limiti giudicati, per tale ragione, definitivi, insormontabili e immutabili e perciò divenuti e riconosciuti dai più come naturali.
Rifiutando in blocco la ‘convenzione’ scultura, partendo da zero, egli è giunto a darci dei solitari capolavori in cui tutti i tempi si possono riconoscere, dai più remoti ai più recenti, al nostro presente, al futuro degli altri. Non ha certo fondato una nuova scuola. Come poteva avere, lui così singolo, così personale e individualista, degli allievi diretti o indiretti?
La sua visione non era trasmettibile ad alcuno, ma doveva essere e rimanere – per sempre – sua e soltanto sua.
La quotidianità della vita è stata il suo modello, egli si è posto sempre e soltanto di fronte a ciò che vedeva nella realtà, non a stilemi, a ciò che incontrava di vivo per strada là dove tanto amava scendere e mischiarsi per stare e sentirsi uomo in mezzo agli uomini, nel brusìo animato dei boulevard, negli incontri caldi, vivaci e arguti dei caffè, nelle sale fumose dei bistrot e delle brassèrie, agli angoli delle strade, in un ansioso e curioso vagabondare – spesso notturno – lungo i quais del Lungosenna o i trottoir delle stazioni, nelle hall degli alberghi dove si può supporre che spesso s’arrestasse all’improvviso per tirar fuori di tasca (dalle sue grandi e capaci tasche che contenevano di tutto) un foglietto qualsiasi o il suo piccolo cahier su cui segnare, anzi stenografare, quelle brevi notazioni di luce, di abbagli, di ombre, di masse in movimento che sono i suoi disegni: brevi, veloci, piccoli e sommari, intensissimi, in cui nulla è artificioso ma tutto è figlio di una visione diretta e di un’originale spontaneità. Egli lavorò – quando lavorava – sempre con grande energia, con la rapidità dell’intuito, distruggendo molto, non correggendo mai, se mai rifacendo daccapo, come se l’opera dovesse nascere in un’unica e felice stesura anche se assai tormentata.
Ciò che sempre sorprende, dinnanzi a ogni sua scultura – specie e soprattutto alle ultime – è la quantità insolita di energia che vi ha saputo immettere: ed è della specie, quest’energia, di quelle che generano capolavori.
In tutti gli scultori suoi contemporanei (fatta eccezione per alcune – anzi per molte – ma non per tutte le opere di Rodin) si sente che fanno ‘statue’: le progettano, dai bozzetti passano alla grandezza voluta moltiplicando, le incominciano e le finiscono in tutte le loro parti, sopra e sotto, davanti, di fianco e di dietro, gli girano intorno per vedersele e tastarsele compiaciuti da tutti i lati: lui, Rosso, no. Non agiva così anche se ne aveva i mezzi, e quanto grandi fossero questi mezzi, lo ha dimostrato in alcuni saggi. Non crea ‘statue’ Medardo Rosso: fa solo scultura senza attributi.
Inoltre ‘faceva’, non ‘finiva’. Penso che non abbia mai detto «ho finito» una scultura, ma bensì «ho fatto» una nuova opera. Ha creato secondo la sua personalissima visione quegli elementi della realtà che nella realtà lo hanno affascinato; l’arte in lui si fa esperienza diretta, testimonianza di vita e di verità.
La ‘forma’ di Rosso non è che lo specchio del suo sentimento, del suo essere uomo tra gli uomini e del suo guardare la persona umana in modo anticonvenzionale: in esso si condensa e si definisce la spiritualità poetica del suo linguaggio d’artista.
Non avendo mai guardato a una figura come a un oggetto isolato, a sé stante, ma come a qualcosa che comunque coinvolge l’ambiente e che da esso si fa coinvolgere, quali altri mezzi doveva egli usare per rendere questo suo modo di vedere se non quelli che ha usato, unici, irripetibili, esclusivamente suoi? Mezzi in cui la simbiosi tra sentimento della vita e forma della scultura conseguente è assoluta.
Dunque, prospettiva illimitata, infinitezza, aria, spazio, immaterialità, luce, colore, riflessi e controriflessi di forme, movimento di masse e di volumi, dilatazioni dei limiti, allontanamento e tentata appropriazione dei confini, abbreviazioni e variazioni, somma di particolari e abolizioni dei particolari: totalità, non frantumazione; non forme chiuse ma forme aperte.
La luce che tutto continuamente muove e muta a seconda dell’incidenza e dell’intensità, lo spazio fisico conquistato facendo scultura sembrano essere gli elementi attivi e modellanti delle sue opere, le materie prime della ‘sua’ materia, in cui egli ha immesso una riserva di vita e di poesia bastevole per secoli. Le teste di bimbo che ripetutamente compaiono nella non molto variata tematica di Rosso non sono ritratti – anche se a volte il pretesto iniziale e contingente è stato un ritratto – ma stati d’animo. I suoi stati d’animo, i momenti di verità in cui questo grosso, tenero ed estremamente sensibile uomo ha guardato ai bambini come all’età pura che sta alle sorgenti della vita.
Li guardava, i bimbi, con grande rispetto, con comprensione, con meraviglia, con amore, con tenerezza e tremore, con estremo stupore e pudore perché solo sui loro volti trovava qualcosa di intatto, di incontaminato e di simile al suo ideale.
Non ne ha fatto delle patetiche testine ma ha reso delle vere, grandi, uniche apparizioni quasi incorporali tanto lo spirito che si affaccia su quei volti è lieve, pulito ed eterno, presenze materializzate di un sentimento, di una visione poetica che si fa realtà tramite due luci: una interiore e una fisica che per pochi fuggenti attimi si è posata su quei volti dorandoli.
Così è l’ultima sua opera, l’Ecce Puer, così il bambino malato, il bambino ebreo, il bimbo al sole e quello che ha fame davanti alle cucine economiche: momenti incancellabili dell’esistenza e della visione di Rosso, concreti e coerenti testamenti di come ha visto e vissuto una realtà e non momenti, sia pur transeunti, della vita di quei pochi bambini che gli sono stati casuali modelli.
Forma, spazio e luce si sono fatti così verità tangibili.
Ha fissato l’attimo ineffabile di un sorriso, il fiato ampio e sonoro di un riso. Assai di rado nell’arte maschere umane hanno così veramente ed eternamente patito e gioito.
Quelli dei greci arcaici o degli etruschi eran sorrisi rattenuti, stilizzati, molto misteriosi certo, ma appena accennati tanto da sembrare emblematici. In lui son vera vita queste risa e ancora risuonano davanti a noi in un’eco che si rinnova.
Nella Bambina che ride anche la luce è chiara, solatìa, gli occhi vivacissimi hanno la medesima espressione delle mobilissime labbra aperte in un limpido riso. Il ‘tondo’, il circolare, in questo piccolo busto diventa quasi totale; la fronte, il cranio sono tesi, solidi, densi, diventano, ma non lo sono del tutto, quasi normali. Tale stupenda, viva, ridente creatura si apparenta a Donatello, ai suoi putti, ponendosi a un medesimo piano di qualità.
Nella Grande rieuse insieme alla bocca ridono gli occhi e la carne. Una luce che si direbbe provenire dall’alto accentua, come non mai in nessuna altra sua opera, quel tentativo di compenetrare solidamente lo spazio, di unire i contorni determinati della scultura all’ambiente indeterminato in cui essa viene a trovarsi. In una successiva edizione l’aver lasciato una parte della controforma del negativo è il mezzo inedito usato per rendere al massimo tale intenzione.
È la scultura più fisica, più voluminosa, più sensuale, più carnale di Rosso. Chi era la donna che nel 1891 gli ispirò tale capolavoro? Essa è rientrata in quell’ombra, in quell’oblio dai quali riemerge ogni volta che riguardiamo questa splendida, vivissima opera. Qualcosa di greco e di lombardo assieme si compenetrano nella gran luce di Parigi per riportare la ‘grande ridente’ a quel luminoso mistero sempre ricorrente nella storia della scultura, quando essa è rivolta al sembiante femminino. Calda, piena come un marmo pario toccato da un fidiaco, il suo fluire allo stato puro fa sì che a questa scultura si possa credere senza riserve, poiché ciò che afferma, al di là della forma, riguarda anche i sentimenti.
Nello struggente Bambino che mastica (o All’asilo dei poveri) il rilievo è ridotto a una lastra senza grande spessore, a un piano piatto e verticale che prende, ciò nonostante, a muoversi, a girare, e che s’anima come se fosse vivente per via di frammenti e piccoli morsi di luce e di ombre, con una tensione pari – se non uguale – a quella di certi rilievi antichi. Penso – forse a torto – ai grandi tondi, alle ‘mezze’ statue, a quelle sculture sottili come schegge di Giovanni al Battistero di Pisa.
Non c’è certamente quella biblica terribilità, ma c’è una forma altrettanto ardita, una passione umana altrettanto intensa, una mestizia, una pietas altrettanto profonde e autentiche e un ‘fare’ scultura altrettanto nuovo, franco e libero da ogni schema già usato.
Nella scarna Yvette Guilbert c’è una sorta di tragico modo di evocare ed evidenziare il carattere della ritrattata, con mezzi scabri, abbreviati, intenzionalmente ridotti a un’essenzialità senza aggettivi che spostano la memoria a certe teste di anonimi e severi crocefissi gotici.
La scultura intesa come cangiante e dinamico supporto a un momento di luce e di ombre particolarmente emozionante ed espressivo. Quando Rosso ebbe tale intuizione?
Mi riferisco all’Uomo che legge il giornale, al Bookmaker, a una figura della Conversazione in giardino (l’autoritratto?), alle maestose, perdute figure dell’Impression de boulevard (Paris la nuit) così misteriosamente allontanantesi come se dovessero, in un baleno, scomparire nell’ombra o essere inghiottite dalla notte. Mai ho guardato con tanto struggente rimpianto a un capodopera così tragicamente scomparso (fu la guerra!), la cui modernità non trapasserà mai, inestinguibile anche se solo la possiamo vedere in una emozionante fotografia fortunosamente conservata.
Definire Rosso scultore impressionista è solo una generica decisione di comodo ed è, anche, una palese diminuzione.
In quell’assorbire e insieme rimandare la luce e vivere di essa come di un’altra materia, non abolendo il volume, ma nutrendolo di questa nuova sostanza, è la sua peculiare grandezza: questo almeno nel suo periodo più fulgido, da quando dalla cronaca verista milanese, superato il contingente, è giunto ad assunti solamente suoi.
Gli scultori, o meglio i pittori-scultori, impressionisti hanno modificato solo la superficie del modellato esterno frangendolo alla luce come nei loro quadri, sfaccettandolo in taches luminose e colorate ma lasciando inalterata la struttura interna.
La sostanza primaria della scultura non è pertanto stata da essi mutata, ma solo intaccata. Inoltre Rosso, non ha mai trattato la ‘materia’ della scultura come se fosse ‘materia’ della pittura. Ha agito più nel profondo, rinnovando radicalmente – come s’è detto – il modo di intendere, di vedere e di fare scultura, riuscendo con la perentorietà dei risultati raggiunti a porre dubbi e ripensamenti al grande Rodin che di certo scultore impressionista non fu.
Ma occorre andare con molta cautela nel parlare d’influenza di Rosso su Rodin: si cade in un grave e ingenuo eccesso di sciovinismo, di autarchismo culturale che l’essere profondamente nazionalista (e fascista) ha distorto e ingannato lo stesso Ardengo Soffici che fu il primo e uno dei più autorevoli e convinti assertori della grandezza di Rosso.
A riprova di un’effettiva e reciproca stima che legava i due precursori e indiscussi protagonisti della scultura moderna, oltre al ricordo dell’antica conoscenza avvenuta nello studio di Dalou dove insieme lavorarono come aiutanti, c’è il famoso scambio di opere: la Rieuse contro il Torso maschile, che è oggi al Petit Palais.
Comunque resta il fatto innegabile che nel Balzac qualcosa di nuovo in Rodin è accaduto a sovvertire, a modificare il suo naturalismo sin troppo memore di echi storici e il suo gran fare di sciolto modellatore. Un impianto diverso, un agitare, un muovere la materia più alterato, più rotto; un imporci questo personaggio non come una statua, ma come una presenza fisica senza canoni monumentalistici. Un realismo che di Balzac ci dà tutta la fisicità oltre che l’importante peso spirituale e morale. Un Balzac fatto attore e interprete di se medesimo, messo in una domestica vestaglia quasi a sottolinearne la caduca fisicità di uomo.
Certo che, a confronto di Rodin, grande inesausto plasticatore, Rosso ha fatto assai meno come quantità, non certo come livello di qualità. Auguste Rodin, raro e autentico genio ‘naturale’ della scultura, è padrone assoluto di tutte le forme, dell’Ottocento è il modellatore principe, il più creativo, fluente e vitale, «le cui mani hanno vissuto come cento mani», dice Rainer M. Rilke.
Come l’acqua di un fiume la materia tra le sue mani si muove, fluisce, ribolle e s’esalta, diviene cosa naturale, organica: arcaica e moderna al tempo stesso.
L’intuizione e il concepimento in lui sembrano coesistere e coincidere senza alcuna frizione con la realizzazione dell’opera stessa. Da quel suo disegnare lineare, veloce, essenziale egli passa sicuro al modellato e sembra che, in questi due generi distinti, non ci sia per lui gran differenza o traccia di difficoltà. Tutto accade genuinamente per il grande esercizio e per via, soprattutto, del gran talento, della fertilità inesauribile della sua personalità.
È entrata nella vita di Rodin – e non si capisce come abbia fatto a starci – una tale mole di lavoro che sarebbe bastata a riempire la vita non di uno, ma di molti scultori pari suoi. Ne faccio solo una questione di tempo, di capacità e di sopportabilità alla fatica. Ma appunto da questa gran mole di lavoro Rodin rischiava di essere travolto e se non altro Rosso lo ha aiutato a togliersi di dosso, almeno una volta, almeno nel Balzac, quel suo veemente e a volte retorico michelangiolismo al quale ha pagato – anche per i troppi incarichi ufficiali – un tributo assai pesante e spesso ingiusto.
L’opera di Rosso nel suo pur limitato complesso è quindi più concentrata, assai meno dispersa in rivi secondari e diversi: è più unitaria e conseguente, anche se meno imponente. Più sommessa e più umana possiede un’intimità più interiore, del tutto italiana, che si lascia avvicinare più facilmente senza suggestioni e complessi.
C’è infine, in Rosso un’intransigenza, una fedeltà ai suoi principi che non lo portano mai, una volta in possesso del ‘suo’ mezzo, a nessun compromesso. Compromesso che non accettò neppure – a riprova della sua statura morale – quando smise di lavorare sopravvivendo a lungo, quasi inerte, rifiutandosi di rifare se stesso, di sovrapporre una maniera a ciò che era stata autentica, irripetibile creazione. Rare volte una lunga e anche gloriosa carriera si è chiusa con un finale così profondamente onesto e intransigente.